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Gamification, non ti Temu: per un utilizzo etico del gioco

È recente la notizia che vede la nota piattaforma di e-commerce Temu sotto indagine da parte della Commissione Europea per presunte violazioni del Digital Service Act. Tra le varie trasgressioni, quella che ha destato maggiore scalpore riguarda la presenza nell’app di meccanismi di gamification che potrebbero creare dipendenza. Ma non è solo Temu a intraprendere questa direzione: sempre più aziende utilizzano funzionalità game-like per coinvolgere i consumatori. Ma una “buona” gamification è possibile?

Voglio iniziare questo articolo con una doverosa premessa: non sono un utilizzatore di Temu, nonostante sia stato intercettato, a più riprese, da numerose inserzioni pubblicitarie della piattaforma. L’esposizione alle sue martellanti pubblicità è l’unico motivo per cui la conosco, oltre al fatto che mi sono poi informato sul suo funzionamento e, in particolare, sulle ragioni dell’inequivocabile successo che ha avuto in Italia.

Lo sfacciato slogan della piattaforma – “Shop like a billionaire” – non ha mai avuto su di me l’effetto desiderato, e per varie ragioni. Innanzitutto, per una banale questione di sostenibilità: credo che, quando parliamo di superfluo, dovremmo consumare tutti di meno, invece che di più. In secondo luogo, sono un forte sostenitore dell’idea che vivere meglio significhi ridurre, introdurre più semplicità nella nostra vita, come stabilito dai dettami della pratica oggi nota come decluttering.

Temu e la gamification

Ma non parliamo di questo. Al di là del modello di consumo proposto, e a prescindere dalla qualità dei prodotti venduti, c’è un altro aspetto, non meno problematico, che ha sempre destato il mio interesse. Parlo dell’adozione di particolari scelte di design dell’esperienza con il preciso obiettivo di aumentare il tempo di permanenza dell’utilizzatore, ottenere più dati sulle sue preferenze, migliorare il suo engagement e, non ultimo, aumentare la sua propensione a farsi ambassador del marketplace, invitando i suoi contatti a fare lo stesso. Un sistema capace di crescere, perfezionarsi e, soprattutto, autoalimentarsi.

Bella novità, direte voi. Tutti i marketplace e gli e-commerce del mondo perseguono, oltre al mero obiettivo di vendita, anche almeno uno di questi obiettivi, in modo più o meno dichiarato. C’è però un particolare che ha attirato la mia attenzione: Temu sta sfruttando, per raggiungere questi obiettivi, la gamification, ovvero sta utilizzando elementi tipici del videogioco (come medaglie, trofei, punteggi, ricompense e sfide) in un contesto non ludico.

In questo caso, la novità non risiede nel fatto che lo sta facendo per scopi commerciali, ma che lo sta facendo in un modo così integrato e pervasivo da rappresentare un unicum nel panorama dei marketplace online, per lo meno nel nostro contesto occidentale. Se è vero che ormai moltissimi brand sfruttano advergames e gamification per perseguire i propri obiettivi di business – Starbucks, Sephora o Lacoste, solo per fare alcuni nomi – è altrettanto vero che nessuno lo fa come Temu.

Una sala giochi virtuale con casual games per ottenere regali, iniziative di social sharing, progress bar e sistemi di fedeltà sono solo alcune delle tecniche che la piattaforma utilizza per portare l’utente a entrare più volte nella piattaforma, tentare la fortuna, restare incollato allo schermo il più a lungo possibile e osservare il maggior numero di prodotti.

L’indagine della Commissione Europea

Ma arriviamo alla notizia. In questo caso, un utilizzo così sovrabbondante di contenuti gamificati ha attirato lo sguardo vigile della Commissione Europea, intenzionata a verificare la possibile violazione del Digital Service Act da parte di Temu, in particolare per quanto riguarda la vendita di prodotti illegali, il sistema utilizzato per raccomandare prodotti agli utenti e infine – qui è coinvolta la gamification – le scelte di design che generano dipendenza.

Il Digital Service Act è una normativa europea, adottata nel 2022, che regola le piattaforme online, con particolare riferimento a social network, marketplace e app store, per fare in modo che queste operino in modo sicuro e trasparente. Al suo interno è regolamentato di tutto, dalla rimozione dei contenuti illegali alla trasparenza nell’advertising, con l’obiettivo di proteggere gli utenti e le loro informazioni online.

A partire dalla sua adozione, le principali piattaforme online – dai social media ai marketplace – sono responsabili della prevenzione e del contrasto rispetto ai contenuti nocivi e disinformativi, nonché di assicurarsi che i loro sistemi di raccomandazione dei prodotti e di pubblicità siano chiari e non manipolativi.

Una “buona” gamification è possibile?

Non intendo affatto demonizzare l’uso di elementi di gamification in contesti non ludici. Anzi, se utilizzati in modo etico, sistemi di reward, sfide e meccanismi di competizione possono essere strumenti efficaci per incoraggiare comportamenti positivi. La gamification, infatti, è già largamente impiegata per motivare le persone a intraprendere azioni benefiche per il loro benessere. Basti pensare a Forest, un’app che aiuta a rimanere concentrati e a mantenersi produttivi, tenendo lontane le distrazioni digitali, oppure alle app che supportano le persone nel percorso per smettere di fumare. Anche attività quotidiane apparentemente semplici, come bere una quantità sufficiente di acqua, possono essere monitorate e incoraggiate attraverso giochi e sfide quotidiane. Persino l’Apple Watch utilizza un sistema avanzato di medaglie per incentivare i suoi utenti a restare attivi e a monitorare il proprio livello di attività fisica.

Queste app dimostrano che, in un contesto etico e ben dosato, la gamification può aiutare gli utenti a raggiungere i loro obiettivi in modo divertente, rendendo più semplice il percorso verso il miglioramento personale.

Né rappresenta un male che, con moderazione e in modo trasparente, queste app siano in qualche misura addictive, poiché è chiaro che qualunque sistema che impieghi ricompense e gratificazioni immediate porta con sé il rischio di generare una certa dipendenza. Ciò che rende la gamification di Temu un esempio “cattivo” non è dunque la presenza di questi elementi, ma il modo e l’intensità con cui sono stati integrati. Per spiegare cosa intendo, prendo in prestito due celebri massime, una dal medico alchimista Paracelso e l’altra dalla cultura popolare, quindi Spider-Man:

  • La dose fa il veleno. Qualsiasi sistema di gamification prevede delle ricompense e un certo grado di ripetizione che aiuta l’utente a mantenere l’interesse. In Temu, questi elementi sono così frequenti e pervasivi che, più che incentivare, finiscono per generare un’eccessiva dipendenza da micro-reward (piccole gratificazioni) e spingere l’utente a tornare continuamente sull’app.

  • Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. La gamification è uno strumento potente, capace di orientare le scelte e i comportamenti degli utenti. Usata correttamente, può migliorare la vita delle persone; al contrario, può avere conseguenze negative per il loro benessere fisico e mentale. In questo senso, le scelte di design di Temu sembrano studiate più per massimizzare il coinvolgimento compulsivo degli utenti che per offrire un’esperienza piacevole e benefica.

L’approccio di Temu alla gamification, quindi, andrebbe oltre l’utilizzo moderato e positivo di queste tecniche, sfociando in un uso manipolativo di meccanismi psicologici che, se non regolamentati, rischierebbero di danneggiare gli utenti più vulnerabili.

La speranza, rispetto a questa vicenda, è che l’indagine portata avanti dalla Commissione Europea faccia chiarezza sull’uso della gamification nel contesto di piattaforme come Temu e, soprattutto, che definisca limiti chiari per evitare che strumenti tanto potenti siano utilizzati in modo improprio.

La regolamentazione auspicata dalla Commissione potrebbe quindi rappresentare un primo passo verso un uso più etico e responsabile di queste tecniche, a tutto vantaggio degli utenti. Questo senza impedire l’uso della gamification ma ricordando che – per quanto sembri un gioco – si tratta di uno strumento in grado di plasmare abitudini e comportamenti in modo tutt’altro che superficiale.